Lungo il binario - Rubrica culturale
Manto di vita di Pietro Pancamo
LietoColle, 2005
Definirei questo lavoro di Pancamo un libretto denso, vibrante, dove le emozioni, servendosi di un linguaggio svelto, escono allo scoperto per dire, per farsi conoscere.
Quello dell’autore è un continuo tenersi agganciato alla realtà anche se ci impaurisce, se ci imprigiona nel raccapriccio sempre incombente; e lo fa per non cadere preda di mostri alienanti che potrebbero ingigantire dentro di noi e perderci. Una improba fatica questa: tenere gli occhi fissi sul quotidiano ma, contemporaneamente, guardarsi dentro nel tentativo di trovare risposte a domande esistenziali. Ecco un esempio, all’apertura del lavoro, come a indicarci il percorso che ci troveremo a seguire: Spiegazione di un giorno. Qui la riflessione e l’autoanalisi si fanno tarlo crudele penetrando il senso dell’inaccettabilità della condizione umana, la vacuità di tutto ciò che è terreno (“[…] sbattono le ali/contro pannelli d’aria.”). Immagine intrigante: aria come vuoto di primo acchito, nell’immediatezza mancante di analisi; ma sappiamo che l’aria ha corpo, anzi, che è un’entità indispensabile alla vita stessa, quindi perché non possiamo pensarla materiale, solida, consona al nostro essere indissolubilmente legato ai bisogni primari? Forse un escamotage inconsciamente escogitato dall’autore: concedere e non concedere, che può fungere da stampella. In altre parole, leopardiano sì, ma ancora in grado di aggiungere qualche goccia d’olio alla lucerna della speranza. Del resto gli anni che Pancamo può contarsi sulle spalle conservano ancora molte striature verdi.
Ed ecco Io adesso festeggio. Un ricordo gioioso fa da tema. Accettiamolo sotto questa identità dicendo no ad ogni remora, anche se alla fine ci accorgiamo di aver volutamente barato: “La naftalina di vecchie allegrie/mi tiene conservato il cuore,/[…] m'infilzo preciso/una bottiglia alla bocca/deciso a brindare.”
Ricordi piacevoli, conservati con previdente parsimonia nella naftalina la quale, per un gioco d’alchimia, gli “tiene conservato il cuore”. Credo di poter leggere: mi aiuta a vivere il tempo che mi separa dal sonno. Inoltre mi chiedo se il contenuto di quella bottiglia che si porta alla bocca sia sapido vino schietto o sappia di liquido antitarme.
Ora arriva il “tacchino riscaldato”. Qui non c’è spazio per equivocare: Il sabato del villaggio si fa avanti quasi con arroganza.
Poesia: una branca della scrittura che è musica, emozione, conforto, sfogo, conversare con se stessi, pianto nascosto, infine, per l’autore “è pura (mera) melanconia” se non si riesce a filosofare esorcizzando l’angoscia che attanaglia con “l’ironia”.
La vita, sappiamo, è una lunga serie di perdite d’ogni genere che passano tramutandosi sempre in ricordi dolorosi. Sì perché si fanno dramma anche le gioie del passato poiché “Non v’è maggior dolore che ricordarsi del tempo felice nella miseria”.
Nemmeno l’apparire del deserto (Formule di parole) porta a pensieri almeno catartici. Nel deserto di Pancamo abbiamo un cactus “ostaggio” che, in tali condizioni, non può offrire l’idea di qualche rudimentale forma di vita che siamo abituati ad attribuire laddove tutto fa pensare a qualcosa di conturbante che ci sbalza nel surreale; qualcosa che non è nemmeno morte, ma uno stato di non-vita. Un disagio che ci inchioda in un destabilizzante senso di transitorietà permanente: ossimoro come essenza dell’assurdo in cui sentiamo intrappolati i nostri pensieri.
Il deserto è UNO, dice Pasolini, da qualunque prospettiva lo si guardi. Anche in questo autore, come in altri, il deserto è luogo di purificazione: in tale unicità ti puoi denudare e chiederti coraggiosamente chi sei, anzi, che cosa sei e perché sei, scoprendo così che la morte può redimerci nel senso di ripagarci della vita sofferta con l’annichilimento totale del nostro essere: spirito e materia, una dualità inscindibile.
In Pancamo questo non avviene: qui, intorno a quel cactus-ostaggio in balia della Natura che non facit saltus nella sua inaudita, inconsapevole, innocente crudeltà, addirittura è il sole che riceve il calore dalla sabbia: la realtà è stravolta, ci troviamo sull’orlo disastroso del solipsismo, un “fantasma nero che,/appuntito come un ago,/viaggi sui trampoli del buio.”
A questo punto il pensiero va inopinabilmente al brindisi di cui sopra, a quel brindisi voluto con caparbietà, per stordirsi. Ed ecco che, in modo estemporaneo, si presenta davanti a noi la patetica immagine di un solitario che brinda a se stesso davanti ad uno specchio. Egli tende la mano ferma, nella quale tiene un bicchiere raso di spumante e, a voce inutilmente alta, esclama: A te, Pietro, che scrivesti per farti capire, sapendo che è difficile, se non impossibile, in quest’era di folli rumori colorati; in questo mondo dove si parla solo il “linguaggio dei segni”. I segni del degrado suicida, i segni dell’ego individuale che sovrasta, i segni della mancanza di senso del dovere, i segni della libertà fatta licenza alla zero-zero-sette, i segni della mancanza di ogni sano principio, i segni alla Robin Hood ma con un solo fine siglato pro domo sua…
Forse solo il Nonno ti può capire mentre trascina il suo pigro disfacimento dalla sedia al letto alla finestra… aspettando il Grande Segno Inaccettabile.