Lungo il binario - Rubrica culturale
Il coraggio del pettirosso di Maurizio Maggiani ‑ seconda parte
Feltrinelli, 1995
Prima parte ‑ seconda parte
Vediamo qui tutta l'angoscia che ci prende quando scaviamo nel nostro profondo rapportandoci al vivere e possiamo così specchiarci nella nostra totale, desolante inutilità. Forse è per costruirsi un salvagente che il giovane disilluso fa del vecchio poeta un simbolo, vincendo l'originaria ripulsa. Il simbolo che raccoglie in sé tutti coloro che hanno interiorizzato, per poi esteriorizzare, la poesia vera, la quale rappresenta per molti l'unico mezzo possibile per tenersi agganciati all'esistenza.
Finalmente quindi Saverio, dopo aver infagottato i suoi fogli dattiloscritti, il documento di identità egiziano e la cartella di cuoio regalata da Azena che contiene la carta di Pascal, esce dal cancello dell'ospedale.
Le gambe sono malferme ma non si sente di andare direttamente a casa; arriverà invece al mercato copto dove c'è "il ben di dio del contrabbando".[1]
Qui trova quello che cercava: una macchina per scrivere di cui non riesce a leggere la marca perché scritta in caratteri cirillici; però i tasti sono in caratteri latini, quindi è tutto a posto. Per dare il nome al nuovo acquisto userà il termine Matrioska: "l'unica parola in russo che mi viene in mente"[2].
Si può pensare che il nome dei mezzi meccanici usati per scrivere quest'opera ‑ Olivetti, Remington, Matrioska ‑ riportati in ordine cronologico, abbiano il compito di aiutare il lettore a rifare il percorso esistenziale, tanto sofferto, del protagonista; aiutarlo a seguirne ogni passo nella grande avventura che è l'esistenza.
Su questa nuova macchina batterà "il capitolo della […] [sua] guarigione"[3]. È un chiudere definitivamente la porta alle proprie spalle per aprire subito quella che ci sta davanti. Dietro la porta chiusa dovrebbero rimanere anche i sogni appartenenti ad un passato da affossare, ma essi reclamano ancora un piccolo spazio dove far udire la loro eco.
In uno di essi, però, stavolta il protagonista non è Pascal bensì Ungaretti. La figura del poeta ha un'importanza rilevante nella vita del giovane, ma la sua si potrebbe dire una presenza-assenza: la prima volta che ne sente parlare è in modo negativo; ne legge alcune poesie che lo coinvolgono emotivamente anche se in modo confuso; lo incontra a Roma in maniera del tutto inaspettata, e tale incontro sarà la causa della sua lunga avventura mentale; infine ne apprenderà la morte dai giornali accorgendosi di provare dolore.
Sogna Ungaretti, si è detto, "il vecchio, il poeta. Rideva, rideva, rideva, non smetteva mai [...], da vero ginn, nel sogno lievitava qua e là nell'aria."[4] Già quando lo vide a Roma il Pascale usò un tale paragone nei confronti del poeta. Ma questo spirito bivalente ha avuto influenza negativa o positiva su Saverio? Quel riso inarrestabile e inquietante, forse malizioso se non proprio maligno, può essere fine a se stesso? Saverio non sembra gradire quell'esibizione goliardica: magari il poeta ride per lo scherzo che gli ha fatto intrappolandolo con un antico documento.
Di mano in mano che i giorni trascorrono il giovane compie un passo verso la guarigione fisica e psichica. Lo capisce perché si sente più forte nel corpo, ma anche perché ha imparato ad attendere con pazienza che la vita segua il suo corso, senza ansie anticipatrici o sussulti irrequieti. Non è felice, questo no, ma non sente più la voglia di andarsene da Alessandria; soprattutto il porto sepolto non lo attira più. Sa che c'è, come sa che esiste Carlomagno, ma gli impulsi che lo avevano spinto alla ricerca dello straordinario, se non proprio dell'eroico, hanno perso il loro vigore.
Si arriva così alla Festa del Montone e il nostro protagonista si reca alla tipografia pensando che è passato tanto tempo dall'ultima volta che vi mise piede.
Porta con sé, assieme alla pecorella da lui stesso tanto laboriosamente cucinata, il suo dattiloscritto. Sì, perché non ha dimenticato "Pascal, mio fratello Pascal, mio bisnonno Pascale; l'ombra che mi ha per tanto tempo gravato sul petto, l'incendiato che ha reso misteriosamente vive le mie notti d'ospedale."[5]
A El Meskin, quando Saverio vi mette piede, trova che nulla è cambiato ed è molto facile riagganciare là dove si era interrotto il legame; quel legame di fratellanza che, ora più che mai, gli sembra tanto prezioso.
Il giovane passa all'amico Ruben il suo dattiloscritto chiedendo di tenerlo in custodia. È incapace di disfarsene e "c'è una bella differenza tra buttare via una cosa e farne un regalo"[6].
Dopo qualche tempo c'è l'invito perentorio di Ruben: "Ci vediamo tra di noi, vieni"[7], gli dice.
E Saverio va al Diwan Nabil, rimanendo sorpreso per la presenza di tutta quella gente: "un'assemblea plenaria di cui non sa spiegarsi la ragione". È sempre l'instancabile Ruben che lo saluta: "Finalmente anche tu sei arrivato."[8] Tiene in mano dei fogli ed è "preoccupante il suo sorriso, […] [lo stesso] sorriso del dottor Modrian quando si è visto arrivare il paziente abbastanza credulone e remissivo da poter finalmente sperimentare le sue pazze terapie."[9] Ad un certo punto Ruben confessa che si erano riuniti nei giorni passati e lui aveva letto a tutti la storia di Pascal. Ne erano rimasti affascinati perché è una storia bellissima, importante, appartenente a tutti loro.
Saverio non se l'aspettava, ne è elettrizzato e deve confessare a se stesso di essere contento. Anche se è convito, più realisticamente dell'amico Ruben, che alla maggior parte dei presenti lo scritto non interessa e tantissimi non l'hanno nemmeno capito.
Purtroppo non finisce qui: quel "prete anarchico" di Ruben ha qualcosa da chiedere, dice; tutti, anzi, hanno qualcosa da chiedere: "[...] perché non l'hai finita 'sta faccenda? [...] Puoi anche non dirci nulla, Saverio [...] ma per noi sarebbe un grande dolore. Dovremmo rinunciare a qualcosa che appartiene ai nostri cuori, ormai."[10]
Nessuna scusa che balbetti il malcapitato lo può salvare: la storia deve avere un finale. Molti dei presenti lo si invita, lo si prega, toccando le corde del cuore, di proseguire quella storia meravigliosa. Quasi tutti si fanno propositivi e persuasivi.
Il poveretto è intrappolato. Oramai c'è dell'agitazione tra i presenti; si inizia a farlo bere mettendogli in mano un bicchiere di "liquore di zibibbo". Nel frattempo lo incitano, lo pregano: se non ha saputo scrivere il resto della storia che almeno la racconti.
Per accontentare i postulanti incomincia a rispondere alla domanda: perché Sua non è rimasta incinta. La risposta è che lei, per il momento, voleva imparare a scrivere e a disegnare, e poi voleva stampare lei stessa un libro sulla storia della sua gente.
"E poi?" L'interesse dei presenti è al culmine, non gli lascia tregua. Gli mettono in mano un bicchiere di birra, poi un altro… Lui beve quasi automaticamente fino ad ubriacarsi. In questo stato pensa che è facile andare avanti. Se a quella gente piace così perché non accontentarla? Per Saverio è un momentaneo regresso non voluto: l'alcool fa da allucinogeno, mentre gli amici si sono calati nelle vesti del dottor Modrian con le "sue pazze terapie". E lui si trova a proseguire i "sogni". Ecco allora crearsi un mondo dove gli amici vengono trascinati. Non è un mondo di favole liete, è sempre quel mondo brutale dove regna l'uomo lupo all'uomo; ma a quella gente che non ha mai deposto l'ideale libertario, convinta però di non dover mai perdere di vista la realtà, le favole non servono.
Saverio prosegue: Pascal, un soldato ormai non più giovane, rotto ad ogni fatica, quasi incapace di provare una qualsiasi emozione, ci stupisce vedendolo intenerirsi davanti alla giovanissima e intelligente moglie Sua. Ella è divorata dalla sete di conoscenza e per accontentarla l'uomo getterà alle ortiche il senso della più elementare prudenza, regalandole un almanacco illustrato, avuto molto tempo addietro ‑ non ricorda più nemmeno come ‑ ma sempre tenuto rigorosamente nascosto. Del resto la follia più grande lui l'ha commessa sposando Sua, "pazza, come tutti gli altri, come Furnà, come il pievano, come suo padre e sua madre. Anche di più, forse, perché aveva una forza interiore tremenda, ed era meravigliosamente bella."[11]
Per Sua il dono dell'almanacco è olio sul fuoco: non si stanca mai di sfogliarlo, di osservarne le figure. Attraverso di esse immagina che oltre i confini di Carlomagno vi sia un mondo vastissimo da scoprire, aiutata in questo immaginare dall'esperienza del suo uomo di cui la fa partecipe. Ma oltre alle figure, la ragazza vuole anche che il marito ‑ sa leggere ‑ le spieghi il significato di ogni singolo segno posto su quei dodici fogli.
Purtroppo l'uomo è consapevole che "il gusto di leggere e ragionare [...] [sono] cose che uccidono: chi poteva saperlo meglio di lui, che per queste cose aveva ammazzato dalle Fiandre al Pinerolo?"[12] Poco prima Pascal, forse investito da quella saggezza che sopraggiunge con l'età avanzata, la quale ci fa capire che ogni eccesso partigiano è almeno inutile quando non è delittuoso, dirà a Sua: "Ma la pace, la grande pace di un popolo intero e di un intero paese non l'ho mai vista"[13].
Sua è sempre più divorata dalla febbre di sapere; quei pochi fogli ormai non le bastano più. È come che la sua mente si allarghi ogni giorno un po'; si chiede quanto possa essere grande il mondo e quanti libri possano esistere.
Ed ecco come Pascal si trovi a mettersi in viaggio con il suo mulo Baes. Un viaggio lungo, faticoso soprattutto perché siamo nel pieno dell'inverno. Ma vuole compierlo da solo quel viaggio, perciò rifiuta la compagnia dello strambo formaggiaro Furnà che insiste per accompagnarlo. Quel vecchio che fu l'unico a dimostrargli simpatia quando tutti quelli di Carlomagno lo isolavano non potendo sopportare un balivo, venuto da chissà dove, tra di loro. Fu proprio quell'originalone di Furnà a sentenziare, rivolto a Pascal, per dimostrargli la sua solidarietà: "[…] un uomo dolente, nell'anima o nel corpo, non deve stare troppo solo."[14]
Quel viaggio così gravoso dovrà portare il balivo dal suo padrone, il marchese di Bramapane per chiedergli dei libri. "No. Sono andati persi, li ho bruciati, sono marciti. Impossibile"[15], risponde con veemenza, dove agevolmente leggiamo il terrore, quell'uomo.
Pascal insiste: "Forse un libro d'ore, un piccolo vangelo […], un almanacco, un bestiario"[16]; ma il marchese rifiuta sempre: "Una ragazzetta di quel paese di mezze bestie che vuole le si leggano libri. Non ci credo. [...] Sciocchezze. Non ti ho nemmeno sentito."[17]
Ma "Pascal era un testardo e sapeva che al marchese dispiacevano di più gli irresoluti dei caparbi."[18]
Il marchese, ad un certo punto, guarda dritto in faccia il visitatore e gli comunica in tono grave, carico di drammaticità, che è venuto da lui "un tale Xavier, uno di Castiglia, un ragazzotto. Prete per di più, uno dei preti di quell'altro pazzo di Loyola, il basco. [...] Verrà anche a Carlomagno [...] ed è bene che non trovi gente troppo istruita: ci rimarrebbe male."[19]
Pascal non può non capire, ma ancora insiste chiedendo "almeno una Bibbia. Finito di leggerla, la brucerò se è meglio così."[20]
Il marchese alla fine cede dichiarando che se la prende "sarà un pensiero di meno per casa mia, ma un pensiero di più per te."[21] Il balivo rassicura il suo padrone: "l'avrò trovata in un sacco lasciato per strada"[22]. "Giusto, ma non una strada delle mie."[23]
Dialogo svelto, essenziale, carico di tutto il dramma che comportano le circostanze e che inchioda uno dei tanti "olocausti" di cui l'uomo ha saputo seminare la sua storia.
Intanto, con qualche pausa e molti incitamenti, la storia di Pascal continuava a fluire dalla fantasia di Saverio; fantasia però che mai distoglieva un occhio attento a verità storiche e geografiche.
Durante l'inverno e la primavera, incalzato dalle domande di Sua che non si stancava mai di ascoltare, conoscere, scoprire, Pascal non le aveva insegnato a leggere ma "semplicemente, le aveva raccontato quello che sapeva sulla scrittura dei libri"[24]. E la ragazza si convinse che ne avrebbe potuto stampare uno anche lei: sarebbe bastato avere a disposizione ciò che serve al caso. "Poi, lei e la sua gente, i suoi monti e i suoi lupi, i suoi fiori e i suoi ruscelli, i suoi uccelli canterini e i suoi pensieri, avrebbero avuto il loro Libro."[25]
È facile tradurre "la loro Bibbia" tenendo conto del significato semantico del termine, il modello sul quale dipanare l'esistenza, tuttavia sempre tenendo per buoni i loro parametri difficilmente adattabili ad altri; ossia di gente semiselvaggia che ha della propria indipendenza un altissimo concetto.
A questo punto Sua decide che bisogna mettersi in viaggio alla ricerca del materiale per poter stampare. Pascal accetta…
Qui Saverio, stanchissimo di bere, inventare e raccontare, spera in una scappatoia dichiarando che si trova davanti ad un mistero che non sa risolvere.
"Quale mistero? […] Te lo risolviamo noi se non ce la fai da te."[26] "Dategli da bere, non vedete che ha la bocca asciutta?" [27]
I compagni sono troppo avidi di conoscere qualcosa su quel loro paese abbandonato per sempre con ogni probabilità, ma non dimenticato. Nostalgia e bisogno di evasione: due forze concomitanti le quali trasportano il gruppo di idealisti in un mondo che non esitano a calare in una realtà loro assai congeniale, al punto che sembra logico diventare protagonisti della storia risolvendo l'inghippo del mistero di cui Saverio non sa sciogliere il nodo.
"Perché Pascal ha accettato di seguire Sua in questa pazzia del libro e del pellegrinaggio?"[28] "Era innamorato…"[29], è la prima risposta, la più logica: esiste una forza più potente dell'amore?
Ma Saverio non si accontenta: è più smaliziato e vuole andare oltre. "Forse. Ma vi dimenticate chi era Pascal, vi scordate della sua vita. […]. Perché allora è partito con Sua? Io non lo so e non posso andare avanti nella storia."[30]
Difatti proprio l'amore, quell'amore ambiguo, inafferrabile, intervenne, con scopi risolutori, riuscendo a disincagliare l'impiccio.
Fatiha aveva parlato, quindi era presente, e se era presente significava che non aveva scordato Saverio nonostante si fosse negata per lungo tempo.
Il giovane, "a sentire quella voce la sbornia […] [gli] si è liquefatta, e adesso […] [gli] colava giù dal cervello in rivoli gelidi."[31]
Ecco la spiegazione che la ragazza aveva dato per il comportamento di Pascal: "I vecchi gatti intelligenti sanno quando arriva il momento che devono finire di vivere. E allora, come ci si aspetterebbe da loro, fanno la cosa più saggia per quella circostanza, la cosa che altrimenti sembrerebbe più stupida: scendono sulla pista della loro ultima caccia per spendere bene le energie che sanno di avere ancora."[32]
Ora Saverio può continuare. Dunque Pascal accetta di accompagnare Sua in quella pazzia perché è un "vecchio gatto intelligente", dirigendosi prima a ponente e poi verso nord. "E ancora più su […]. Lì ci sono valli a ridosso dell'antica via per il lago di Lemano dove praticamente in ogni villaggio c'è una piccola officina di stampa […]. Quelle valli sono la culla ben protetta delle peggiori eresie, ed è da quei villaggi che si propagano per le terre cattoliche le stampe che l'imperatore e il papa non si stancano di maledire e d'incendiare. Stampe e stampatori, s'intende."[33]
Naturalmente per quelli di Carlomagno, che li approvano con tutto il cuore, Pascal e Sua, con il mulo Baes, vanno in pellegrinaggio, fino "alla navicella di san Giacomo, quella che aveva portato il cugino del signor Cristo e Maria di Magdala"[34], per chiedere la grazia di un figlio. Sua ha giocato bene le proprie carte: la sterilità di una coppia è ritenuta una sciagura per la gente del suo paese; da dove è impossibile andarsene senza una causa molto molto seria. Così, scegliendo il pellegrinaggio finalizzato alla procreazione, è riuscita ad avere l'appoggio affettuoso di tutti, i quali accompagnano i partenti per un tratto.
Il viaggio è lunghissimo e molti, o la totalità, pensano che i due non riusciranno più a fare ritorno.
Sopportando grandi fatiche, tuttavia, Pascal e Sua riescono a reperire il materiale per stampare, dopo di che si accingono a tornare al paese.
Purtroppo "a poco meno di un giorno di cammino da Carlomagno, incontrano il prete Villelmo."[35] Il poveretto è ridotto in uno stato pietoso: ha i piedi nudi ed è malamente coperto dalla casacca gialla, "il segno che gli eretici colti nel fallo della loro eresia dovevano portare per penitenza."[36]
Pascal e Sua interrogano il pievano, ma egli non ha più la testa a posto e, ad ogni domanda, non fa che "blaterare nel dialetto della sua teologia".[37]
Maggiani, in queste pagine fosche di tragedia, riesce a trasmetterci tutto il terrore da cui vengono paralizzati i personaggi. Essi ci appaiono esattamente per quello che sono: vittime già destinate ad essere ghermite da ingranaggi che solo l'efferata insensatezza umana può concepire.
Per Pascal è chiaro ciò che è accaduto. Allora, assieme a Sua e al povero pievano, "salgono lungo il crinale che porta alle cave di marmo più alte"[38], dove trovano rifugio in una grotta ben nascosta che Furnà aveva indicato al balivo durante i suoi giri fatti nello svolgimento della sua funzione.
Nonostante una folle paura lo faccia tremare, pure l'uomo non dimentica il sogno della moglie: chiudendo in una sacca il materiale per stampare che erano riusciti a procurarsi, prende Sua ed assieme vanno a nasconderlo in un pozzo di cava. Ora bisogna pensare ad allontanarsi il più possibile da quei luoghi.
E qui sentiamo l'afrore emanato dalla feroce caccia all'uomo. Afrore che ci investe facendoci rabbrividire di raccapriccio, poiché in questo caso non si tratta di caccia all'uomo per difendere se stessi o una società, ma solo dell'aberrante cieco fanatismo, armato dalle armi più crudeli, che impazza, spinto in avanti da una bieca follia che si sostituisce al buon senso. Bastano anche le poche nozioni che tutti abbiamo sulla Controriforma e la sua campagna contro gli eretici per capire i brividi di paura che scuotono Pascal in questo frangente.
Mentre cerca ogni mezzo per salvare se stesso, la moglie e magari il pievano, gli sovviene che ha dimenticato a casa il famoso almanacco incriminabile, la paura si fa terrore, pure non ne fa parola con la ragazza.
Ritornando dal pozzo al loro rifugio trovano che Villelmo s'è ripreso: ora li riconosce e scoppia a piangere. È divorato dalla febbre e risente ancora, in tutto il fisico, delle torture subite; però può fare il resoconto di quello che avvenne a Carlomagno durante la loro assenza. Xavier era entrato nel borgo "con una vasto seguito di soldati e notai, una cassa di bolle e patenti e il coro di certi pretazzi"[39]. Una dozzina di villani scalmanati li aveva dati a prestito il marchese venendo meno al giuramento, fatto due anni prima, di difendere Carlomagno in cambio del vassallaggio. Il povero Villelmo, interrogato per primo, aveva "spontaneamente ammesso le sue mancanze in fatto di dottrina e di morale".[40] Ma non c'era stato verso di far ragionare il prete castigliano, il quale poi passò a interrogare i capi famiglia. "[…] cercava di farli ragionare di cose che non conoscevano, cercava di strappargli parole che nemmeno sapevano dire. Le dicevano alla fine, storpiate, buttate giù ad ogni giro di ruota, a ogni passata di fune."[41] I padri, riuniti in consiglio, per porre fine a quei tormenti, ed evitare che venissero coinvolti persino i bambini, decisero: "Abiuriamo le nostre sante leggende, sputiamo sulle nostre canzoni, confessiamo ogni cosa che farà loro piacere […]. Poi si vedrà."[42] E quando gli scabini trovarono, nella stanza di Pascal, carte "grandemente eretiche", quei poveracci non esitarono ad accusarlo assicurando che era stato proprio il balivo a corromperli. L'autore pare che metta il punto su quest'accusa, ma chi si sente di condannare quei poveretti nella loro limitatezza umana? Hanno tradito ma non ne vanno fieri se sentono il bisogno di mettere a tacere quel filino di rimorso, che forse fa capolino, con una speranza che non è del tutto infondata: con ogni probabilità quei due non sarebbero mai tornati.
E mentre il pievano spiega tutto questo, piange disperatamente per il rimorso di non aver saputo lottare abbastanza in favore del balivo; e chiede perdono con una contrizione profonda, poi aggiunge che solo il vecchio Furnà si era battuto per difendere Pascal e lo aveva fatto nel suo modo stravagante; ossia tagliandosi le ultime due dita rimaste (le altre se le era fatte saltare, ad una ad una, ogniqualvolta mancava al giuramento d'amore eterno verso una donna). Ora Villelmo sapeva che il vecchio formaggiaro, dopo questa dimostrazione, era stato incatenato in casa sua e lasciato morire.
Nelle azioni di Furnà vediamo una forma di autopunizione che non è facile capire; un senso morale assai particolare, il quale però bene si inserisce in quella comunità chiusa ad ogni presenza estranea, fiera della sua storia, che però nessuno scrisse mai.
Naturalmente Pascal non rimprovera il pievano né la gente di Carlomagno. Capisce. Ora porterà il prete in un punto dove potrà riprendere il cammino in cerca di un'eventuale nuova pievania. Spera anche che potrà abbandonare presto la sua casacca gialla "perché sa che fino ad allora gli sarà difficile anche solo poter avere qualcosa da mangiare nel mondo dei buoni cristiani."[43]
Pascal e Sua, con il mulo, cercano di fuggire ma vengono presi dopo appena due giorni.
L'uomo si arrende: sa che ormai il "suo" tempo è scaduto. Consegna la patente di balivo al prete Xavier, come riconoscimento d'identità. Il castigliano se la ficca in tasca senza nemmeno guardarla. In ciò si vede la boriosa sicurezza del predatore che sa come la preda ormai sia in suo potere.
Non c'è alcuno scambio di parole, né con la moglie né con il prete né con gli scagnozzi che l'accompagnano. Questi ultimi sono tutti di Carlomagno, gente esperta dei luoghi che può individuare senza fatica la via presa dai fuggiaschi. Soltanto Sua,"annichilita dallo stupore", cerca di avvicinare i compaesani, ma essi non si sentono completamente a posto e "procuravano di starle il più possibile alla larga"[44].
Poche parole che servono a descrivere un intimo dramma. Quindi "non una parola tra i due, non una parola tra tutti su quella costa rocciosa in un limpido mattino di montagna." [45]
Una chiusura di paragrafo, quella di Maggiani, che fa misurare tutta la nostra miseria d'uomini, immersi nel tempo, entità immateriale, che scorre sulla materia che ci circonda superba della sua indifferenza.
Pascal tuttavia pensa alla sua donna; cerca di sfiorarle almeno la mano mentre tornano verso Carlomagno, ma non ci riuscirà e sarà l'ultima cosa che lega i due sposi. Del resto il balivo lo "pronosticava".
A Carlomagno vengono separati, imprigionati in due luoghi diversi.
Pascal venne poi condotto a Roma "a piedi, in un viaggio estenuante che durò quasi un mese"[46], nonostante avessero potuto farlo arrivare a Roma, via mare, in cinque giorni. Quella fu proprio una tortura inutile.
Nella capitale, dopo altri due mesi di interrogatorio e di torture viene condannato ad essere arso vivo.
Saverio non ne può più e spera che gli ascoltatori si accontentino di quello che ha raccontato fino ad ora così da poter finalmente riposare.
Ma ecco che Fatiha chiede di Sua. Qualche "pappagallo" le fa eco.
Il poveretto dapprima dice che non sa niente della ragazza; poi, vista l'insistenza, per soddisfare quegli incontentabili, decide di ricorrere alla magia. Scelta non del tutto gratuita, in fondo: le arti magiche ben s'addicono alla gente di Carlomagno. Cerina, madre di Sua, "la levatrice, la medicona, l'imbalsamatrice e la profetessa, la cantatrice, riesce anche a volare e a scardinare i catenacci. Così Sua se n'è andata la seconda notte in groppa a sua madre".[47]
Dal suo posto di prigionia Pascal non può vedere che la moglie è stata liberata dai poteri magici della madre; però all'indomani qualcuno trova il modo di dargli la notizia e lui ne è felice perché sa che la ragazza non avrebbe potuto sopportare quello che le sarebbe toccato.
Da quel momento la ragazza visse nella palude con i genitori. Il padre Ruben, "decano della palude", ne è profondo conoscitore e lì sono al sicuro: "nessuno ha voglia di andare [in quei luoghi], nemmeno in nome di Dio"[48]. Si cibano di pesce crudo, di miglio selvatico e dormono "sul sacco delle proprie robe".
Allo scadere dell'anno Sua diede alla luce un bambino cui fu imposto il nome di Pascal; lo battezzò il nonno con l'acqua pura di una gora. Così dunque Sua era incinta prima dell'arresto. Pur sapendolo già durante il viaggio di ritorno per Carlomagno, non l'aveva rivelato al marito non volendo "intenerirlo troppo".
Passò così un altro anno dopo di che la giovane andò a riprendere, con gran fatica, il materiale per stampare, nel pozzo dove l'avevano nascosto. Il viaggio di ritorno da quel luogo fu ancora più faticoso per via del peso recuperato; ma ci voleva ben altro per far recedere Sua dai suoi propositi.
Nel frattempo Ruben, il padre della ragazza, decise che ormai avrebbero potuto tornare tutti e quattro alla loro casa senza pericolo. Così fu fatto. Ma Sua preferì lasciar passare un altro anno e, dopo tale tempo, iniziò a darsi da fare affinché il suo sogno si realizzasse. Dalle lenzuola ricavò carta, come le avevano insegnato, mentre Ruben fabbricava un torchio. In tali impegni trascorse l'autunno, venne il gelo e poi il disgelo. Ed il decano della palude, che sapeva parlare alle rane e a tutti gli esseri acquatici, cantò la canzone dell'amore degli alcioni; canzone che a Carlomagno annunciava l'arrivo dell'"estate del martin pescatore".
Allora Sua prese il bambino tra le braccia e pianse un poco nascosta tra la sua tenera carne [...]. Pianse solo il tempo necessario perché la nostalgia del suo uomo, [...] che si era preso il primo giorno degli amori degli alcioni di tre inverni passati, la smettesse di continuare a bruciarla.[49]
Questo passo del racconto di Saverio ci ricorda che la natura, nella sua ineluttabilità, pretende dai suoi figli la perpetuazione della specie: la vita, nel suo perenne divenire, non deve presentare vuoti. Tutti noi, a fianco di un tappeto semovente, siamo chiamati a provvedere a questa continuità senza soluzioni.
Anche Sua ha compiuto il proprio dovere verso la vita ed ora può dedicarsi al suo sogno. Durante una notte, al lume della lanterna cieca, pescò nel sacchetto dei caratteri e "Prima del mattino c'erano sulla forma già parecchie righe di piccoli segni che brillavano debolmente sotto la luce. Provò a rileggere, e faceva una gran fatica"[50].
In caratteri gotici Sua si accinge a scrivere la storia di Carlomagno facendola partire dall'avvento del "signor Cristo", amico dei derelitti, degli oppressi. Questo è l'inizio: "Per mano dei servi di Roma il signor Cristo patì sul Golgota un grande tormento […]",[51] continuando per poche righe ancora, sempre in uno stile adeguato.
Saverio stavolta, è chiaro per tutti, ha proprio finito la sua storia, ed i presenti si sentono orfani, orbati di una evasione benefica, corroborante. Qualche sospiro si leva all'intorno e poi la frase colma di amarezza: "Hai proprio finito Saverio, puttana Eva."[52]
Sì, Saverio ha finito. Anche per lui ormai è finita ogni evasione: un incidente grave dapprima, una grande fatica fisico-mentale in seguito hanno dato alla sua esistenza uno scopo, forse addirittura una giustificazione. Dopo queste pause il districare la mente dal torpore catartico e riproiettarci nella piattezza del quotidiano punteggiata della paura del vivere, richiede sforzo. Saverio riemerge ‑ e ci fa riemergere ‑ con una delle tante immagini poetiche usate nel suo percorso narrativo: "Dalle finestre spalancate la luce biancocammello del primo mattino risucchiava i vapori densi della sala, così che il Diwan Nabil stava riprendendo un aspetto terreno."[53]
Dopo i voli lirici nel mitico fantasioso si ritorna malinconicamente nella realtà. Forse occorre essere ginn ‑ come lo fu il poeta Ungaretti la cui dipartita ha lasciato un vuoto insospettato in Saverio ‑ per trovare la strada giusta da percorrere. Ma qual è la strada giusta: quella che ha intrapreso chi "non c'è più o quella di chi è sempre stato "un pettirosso da combattimento"?
Quattro parole queste di grande suggestione con le quali si chiude il lungo racconto di Saverio Pascale. Racconto che è lo spaccato d'una vita trascorsa nel tormento dell'inquietudine, della ricerca, delle disillusioni proprie di coloro che non si rassegnano a "viver come bruti". Ma i "pettirossi", si sa, sono destinati a morire sul campo di battaglia senza mai nemmeno sfiorare la palma della vittoria.
Prima parte ‑ seconda parte
[1] Pag. 264
[2] Pag. 265
[3] Ibidem
[4] Ibidem
[5] Pag. 269
[6] Pag. 271
[7] Ibidem
[8] Pag. 272
[9] Ibidem
[10] Pag. 275
[11] Pag. 281
[12] Pagg. 281-282
[13] Pag. 201
[14] Pagg. 184-185
[15] Pag. 283
[16] Ibidem
[17] Ibidem
[18] Ibidem
[19] Pag. 284
[20] Pag. 285
[21] Ibidem
[22] Ibidem
[23] Ibidem
[24] Pag. 288
[25] Ibidem
[26] Pag. 290
[27] Ibidem
[28] Pag. 291
[29] Ibidem
[30] Ibidem
[31] Ibidem
[32] Ibidem
[33] Pag. 293
[34] Pag. 289
[35] Pag. 296
[36] Pag. 299
[37] Pag. 297
[38] pag. 298
[39] Pag. 299
[40] Pag. 300
[41] Ibidem
[42] Ibidem
[43] Pag. 302
[44] Pag. 303
[45] Ibidem
[46] Ibidem
[47] Pag. 306
[48] Ibidem
[49] Pag. 310
[50] Ibidem
[51] Ibidem
[52] Pag. 311
[53] Ibidem