Celeste Chiappani Loda

Presentazione

Il mestiere di scrittore

Intervista rilasciata da Celeste Chiappani Loda a A. Martini e G. Frigerio de La Roggia nel 1982

Come mai le è venuta questa passione di scrivere?

Ho iniziato a scrivere verso i 13/14 anni, ma rileggendo dopo qualche settimana tali scritti, per lo più racconti, mi accorgevo che non mi andavano più, perciò li stracciavo regolarmente. Da molti anni però non straccio più i miei lavori. Li conservo tutti. Purtroppo pubblico pochissimo rispetto a quanto produco, sia in prosa che in poesia; anche se tra le due forme d'espressione preferisco la prosa.

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Qualcuno mi dice che sono fortunata nel senso che questo mio "sfogo" solitario e personale mi serve come valvola di scarico per affrontare le traversie della vita che sono state veramente molte e molto crude, per me. Forse costoro hanno ragione ma io mi chiedo, mettendo questa passionaccia su tale piano, se vale la pena di strappare qualche anno ad una vita in cui, in fondo non si crede anche se si ama; una vita che non ci può fare che paura.

Io penso che quando si scrive, si voglia sempre comunicare con gli altri, si voglia inviare un messaggio. […] Qual è il messaggio che lei vuole comunicare attraverso questi suoi scritti?

[…] speriamo di poter riuscire a sintetizzare la mia risposta. Il messaggio è questo. […] Non sono tipo da "iurare in verba magistri" e […] ho rielaborato gli insegnamenti ricevuti, in modo personale, per trovare una mia via, un binario su cui camminare nel modo più chiaro possibile, relativamente a quello che è la natura umana. Mi sono accorta così che rifiuto qualsiasi etichetta però mi sono [tracciata] una regola di vita che si sintetizza nell'amore verso gli altri. Io credo soprattutto in questo; e anche quando tutto è difficile, quando sembra impossibile ogni comprensione, cerco di capire gli altri, di mettermi nei loro panni, al punto molte volte, di annullare me stessa. Questo mi ha portato a delle terribili crisi di sfiducia e di stanchezza; però, bene o male, ne sono uscita, convincendomi sempre più che l'amore verso gli altri è la cosa migliore della vita. E questo amore si esprime soprattutto sforzandoci di dare il cosiddetto buon esempio. Ecco, forse qui sono un po' esibizionista, ma vorrei citare una frase di mia figlia che mi ha gratificato molto. "Vedi — mi disse un giorno — tu non mi hai mai impartito insegnamenti a parole, mi hai insegnato con l'esempio. Prima di dirmi 'devi fare questo', mi hai dimostrato che si poteva fare." Questa frase per me ha il valore di una conferma di riuscita laddove ho lottato per riuscire.

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Una cosa che mi incuriosisce è questo suo pessimismo, un pessimismo fondamentale, che però ha dei lati positivi. Rispetto ad esempio alla vita di adesso, alle nuove generazioni, a questo stato di violenza latente che c'è, come si pone il suo essere pessimista?

Credo che sia necessario riallacciarci al fatto che per me l'uomo è sempre uguale a se stesso. Quando asseriscono che adesso il mondo va meglio o va peggio, io non ci credo, né in un senso né nell'altro. […] Oggi i problemi si sono spostati, così come si sono spostati i valori. Ma dove si sono spostati? Prendiamo in considerazione il Terzo Mondo, ad esempio. […] Parlare di pellicce, di Bmw, di droga è un non-senso; là capiscono ancora il linguaggio che si snoda a livello di pane quotidiano. Assicurato il quale, che è l'essenza della vita, l'uomo penserà automaticamente alla propria parte cosiddetta spirituale. In tale termine conglobo tutto quanto esorbita dallo stretto ambito dei bisogni primari dell'uomo. Pochi, oltre al pane cercheranno "beni di consumo" spirituali; molti altri cercheranno "beni di consumo" materiali, quelli, per intenderci, che la nostra civiltà consumistica ci sciorina instancabilmente nei "caroselli" vari. A questo punto, secondo me, scatta il meccanismo. Alla base della soluzione o della ricerca di soluzioni che ciascuno si propone per soddisfare la parte non animale che sta in noi, deve esistere la ferma volontà di tener conto del nostro prossimo.  Abituandoci a pensare all'altro, anche nella stretta cerchia del vivere quotidiano, tanto per iniziare, potremo sperare, forse, in una società meno sperequata. En passant dirò che questa teoria l'ho sviluppata a fondo nel mio romanzo Berto-coscienza, ove la chiamo teoria dei cerchi concentrici.

Anch'io credo che dire che il mondo adesso va peggio non abbia senso, mi sembra un po' quasi la solita filosofia di chi demonizza il presente e il futuro e dice sempre che il mondo va peggio, che si stava meglio una volta e così via. […] Però mi riesce un po' difficile capire quella frase in cui lei dice che l'uomo è sempre uguale a se stesso; in che senso è sempre uguale a se stesso? A me pare che ci sia, invece, una evoluzione nel modo di essere dell'umanità, che i secoli di storia che ci sono alle nostre spalle pesino e che ci sia una modificazione nella mentalità, nel costume, ecc. Mi riesce difficile cogliere il senso di questa sua affermazione.

L'uomo è sempre uguale a se stesso nel senso di struttura psichica. Anche se ogni individuo è irripetibile; non solo, ma in continua evoluzione (o involuzione) su un piano individuale, pure l'uomo, come umanità, è sempre uguale a se stesso, perché le componenti messe nel crogiolo per formarlo sono poche, in fondo.

Inoltre, nessuno può passare le sue esperienze agli altri. Potremo passare una malattia contagiosa o una nozione dello scibile; mai le nostre esperienze, buone o cattive che siano. Per questo l'uomo (inteso sempre come umanità) rimane tale e quale con azioni e reazioni che cambiano soltanto nella forma, mai nella sostanza. Lei asserisce che i secoli di storia hanno lasciato un'impronta; ma su "chi"? Sono sempre propensa, purtroppo, a dividere l'umanità in un'élite e in una massa. Massa non come massa lavoratrice, massa come gente che vive alla giornata (che può essere anche chi è preposto a dirigerci); la massa che intendo io comprende tutti coloro che intendono la vita così com'è, fregandosene, mi si passi il termine, degli altri; mentre all'élite appartiene il resto, e sono pochi. Possono essere gli intellettuali intelligenti o anche le persone prive di cultura, ma oneste che si pongono davanti alla vita cercando di capire, ma soprattutto cercando di coinvolgere gli altri nel loro travaglio.

Senta, ci sono dei modelli culturali a cui lei si riferisce quando scrive, ha in mente un modello dei poeti che le piacciono in particolar modo e degli scrittori?

Sono piuttosto per gli scrittori moderni, però quando scrivo sono assolutamente ed esclusivamente me stessa. Non ho in mente alcun modello perché, come dicevo prima, sono un'individualista della più bell'acqua. Può darsi che inconsciamente mi faccia influenzare da un modello piuttosto che da un altro; però onestamente non potrei dire di avere accettato uno scrittore piuttosto che un altro. Non tra i modernissimi, ad esempio, io amo Pirandello perché è uno spirito malato come me. Poi amo i tre grandi poeti […]: Quasimodo, Ungaretti, Montale. Tra i passati amo Dante e Leopardi, non potrei non amare Leopardi. Tanti altri mi piacciono, ma non ho mai scelto tra di loro un modello.

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