Celeste Chiappani Loda

Lungo il binario - Rubrica culturale

Riflettendo su una frase di Cesare Pavese

“[…] Quel mattino vedevo me stesso come chiuso nel vetro, non più prigioniero di muro e sbarre ma isolato nel vuoto, un vuoto freddo, che il mondo ignorava. Quest’era la pena vera: il mondo esclude il recluso. Non tanto di uscire anelavo, quanto che entrasse il mondo nel mio vuoto e lo colorasse, lo scaldasse in gesti e parole. Leggere non bastava, […] occorreva che almeno nel mondo pensassero a me, me ne dessero i segni, e non tutto svanisse in quell’atroce innaturale immobilità.” (Cesare Pavese, Racconti, Torino, Einaudi, 1960, pag. 180)

Adolescenza. Età di transizione colma di fermenti nuovi, di immensa voglia del domani che non finirà mai; una voglia così grande che quasi ti fa scivolare nel presente senza fartene tangere. Età colma di gioie senza motivo, di irrequietezze vaghe, di sogni assurdi. Tutto ciò ti possiede e tu ti senti forte: il mondo chiede soltanto di essere conquistato e la vita è argilla malleabile nelle tue mani. Quella vita che ancora non conosci e di cui tutti parlano corredandola di vari aggettivi tra di loro contraddittori di volta in volta.

Poi le prime delusioni e disillusioni. Le avverti certamente, ma riesci ancora a scrollartele di dosso con una certa facilità: la strada che si apre davanti a te è ancora lunghissima e per te è sempre disponibile una cornucopia ricca di doni, così che hai di continuo lo sguardo puntato su quel gran mucchio di tempo che ti appartiene. Senti anche parlare di morte; magari ti capita di toccare con mano la sua inesorabilità inaccettabile quando falcia qualcuno di tua conoscenza; sai pure che la sua esistenza è la certezza più assoluta che l’uomo possiede. E con questo? È ancora così lontana che il suo terrificante aspetto si diluisce al punto da finire con lo sciogliersi in pochi secondi come anacronistica neve al calore di luglio. Per questo procedi impettito, abbagliato da sfolgoranti aspettative.

Poi arrivano i vent’anni che, nell’immaginario adolescenziale, sono qualcosa di fiabesco. Un traguardo appagante di matura libertà, di sicurezza di sé: gli orizzonti si allargano maggiormente.

Ma come mai questi fiabeschi vent’anni di ieri oggi sono già trenta?... Quaranta?... Ora è chiaro che il sole non sempre riesce a farsi strada tra le nubi, e la luna non sempre a farsi strada fra le tenebre notturne. Delusioni e disillusioni hanno lasciato il posto ai Problemi quotidiani e al Dolore, ormai. Peggio: gli si sono affiancate. Tra tutto l’entità più paurosa è quel Dolore terribile che ti strazia la carne, che ti fa impazzire, che ha mille e una faccia ed è sempre in agguato. Può arrivare come un vortice inatteso in ogni momento che ti travolge, ma con la sadica accortezza di darti solo l’impressione di impazzire lasciandoti però la mente lucida affinché tu lo possa assaporare fino alla feccia.

E quel mucchio d’anni che si ergeva solido e invitante davanti ai tuoi passi dov’è andato a finire?

Un’altra scoperta dolorosa sei costretto a fare: il mondo ti guarda beffardo; ma solo ora te ne accorgi. Rancorosamente devi ammettere che fu la tua cecità a trarti in inganno (già inganno feroce essa medesima): il mondo ha sempre girato e girerà sempre per lo stesso verso. E la vita? Oh, quella ti ha tenuto impastoiato a suo piacimento, magari facendoti credere, in modo truffaldino, di essere in possesso della facoltà di libera scelta, del famoso libero arbitrio. Queste due scoperte portano in maniera inevitabile ad un’unica sconvolgente conclusione: dunque questa è la condizione umana in cui siamo stati catapultati e incatenati?

C’è chi metabolizza e si rassegna – e sono più di quello che si crede, beati loro! – ma altri no. Tu sei tra questi e ti senti schiacciato sotto l’intollerabile peso di una macroingiustizia con la quale, t’accorgi, non potrai mai giungere a un compromesso impedito dal tuo invincibile donchisciottismo le cui conseguenze tutti conosciamo. E per te, tali conseguenze, sono sempre cariche di un progressivo frustrante avvilimento.

È pur vero che talvolta ti decidi a chiedere aiuto. Quell’aiuto che si identifica con i cosiddetti messaggi muti i quali, però – è difficilissimo, del resto farlo – non vengono mai captati. Giungi persino a importi qualche passo per avvicinarti al tuo prossimo, cercando onestamente e coraggiosamente il confronto nella non proprio remota speranza di trovare condivisione. E gli parli ascoltando, intrecciando un dialogo che, in effetti, è un monologo, perché l’interlocutore di turno, pur con l’aria di ascoltarti, non ti sente. Così, con angoscia crescente, ti rendi conto che è impossibile ignorare, quindi valicare, l’alto muro che ti separa dall’altro. Tu piangi su fatti e situazioni sui quali il tuo interlocutore ride; ti indigni fino a digrignare i denti su fatti e situazioni che l’altro trova più che tollerabili; ti ribelli, senti il sangue ribollire per fatti e situazioni che l’altro accetta come norma e vi si adegua allegramente … È la vita! – Appunto! – vorresti gridare con tanti punti esclamativi.

Ecco perciò il distruttivo senso d’abbandono e di solitudine che però devi tenere ben nascosto nelle profondità dell’imo per non essere deriso e colpevolizzato: chi è causa del suo mal…

Davanti al muro ormai non resta che l’autoisolamento il quale ha un unico sbocco: la misantropia. Tutto sommato essa potrebbe essere una protezione se tu la vivessi all’Angiolieri. Purtroppo, nel rapportarti ai tuoi simili, non riesci ad assumere una posizione manichea, sia per il tuo acceso donchisciottismo, sia perché sei convinto che l’unica certezza su cui ci si può basare è che ogni medaglia ha il suo rovescio.

Intanto pensi, rifletti, ti rigiri su te stesso instancabilmente come volessi riuscire a baciarti i gomiti. Non sei razzista e il tuo prossimo va dal vicino di pianerottolo all’ultimo abitante degli antipodi. Sei democratico e sostieni che tutti abbiamo gli stessi diritti e gli stessi doveri. Sei minimalista: siamo nati nudi e nudi moriremo. Convinzioni che ti intossicano il sangue perché contraddette dal quotidiano. Non bastasse, sarebbe sufficiente aprire un libro di Storia per capire che il mondo girò sempre storto e dedurre che sempre storto girerà. Anzi, basta molto meno: la “dura lex sed lex” che sta alla base di tutto, vale sia nella giungla naturale sia nella giungla dell’asfalto. Per questo ti dibatti in un groviglio di sentimenti contraddittori per quanto riguarda i tuoi simili: paura, disprezzo, pena, affetto, simpatia, odio, fratellanza, ostilità, diffidenza di volta in volta. Una destabilizzante linea a zig-zag che non può portare che a uno stato di patologica incertezza, di irrequietezza.

Ed eccoci finalmente alla frase d’apertura: “Leggere non bastava”, confessa dolorosamente Pavese. Ci si può chiedere perché non abbia aggiunto “e scrivere”. Leggere e scrivere, per la verità, non sono inscindibili; non tutti i divoratori di carta stampata scrivono, ma chi scrive con la esse grande deve per forza di cose leggere molto; e Pavese scrisse con la esse grande; quindi era in possesso di un duo formidabile, una solida ancora. A questo punto tuttavia siamo autorizzati a pensare che, per il Nostro – eroe che seppe dire NO – un anello della catena di tale ancora cedette, abbandonandolo così in un mare tempestoso di cui non volle contrastare le forze.

D’altra parte come si può lottare contro il dio dell’inutile che sta ritto davanti a te spazzandoti via ogni volontà?

Quando molto tempo fa, ripensando alla domanda che qualcuno ti aveva posto (accade inevitabilmente) che cosa vuoi fare da grande, scopristi che fra le molte strade esiste anche quella che si basa sull’immagine, nello specifico che punta sulla bellezza fisica dell’individuo. Questa strada per te era vietata: ti rendevi obiettivamente conto di non averne i requisiti, ma ti rendevi anche conto che, pur avendoli non avresti mai scelto una simile strada poiché la tua indole ti portava dritto dritto verso le cose della mente. Non che tu sia un genio, anche questo lo sai bene. Diciamo mente per dire che sei portato con determinatezza verso l’osservazione, la riflessione, gli sfoghi di penna, le letture ad amplissimo raggio, la ricerca continua del contatto con chi ne sa più di te, l’amore compulsivo per il sapere, in poche parole.

Abbiamo parlato di strada da intraprendere. Con ciò si intende sempre un lavoro che garantisca il sacrosanto pane quotidiano con relativo companatico; ma tu non appartieni a quei rarissimi fortunati che riescono ad abbinare stipendio e passione. Per te tutto quanto riuscisti a dare alle tue esigenze fu il cosiddetto tempo libero, e mai potesti uscire dalle sue strettoie. A tuo avviso esso trascorreva troppo in fretta, per questo non ne sprecasti mai nemmeno una goccia, trascorrendolo chiuso in una stanza, lontano dal rumore del mondo. E ti sforzavi di sentirti fortunato; spesso, anzi, ne eri realmente convinto: lo scibile umano non ha limiti, per la qual ragione non ti sarebbe mai venuto a mancare uno scopo, una ragione di vita. E quanta pena provavi per coloro che avevano scelto come lavoro-carriera lo sfruttamento della loro avvenenza, del loro fascino. La bellezza, si dice, è un prestito che, piuttosto prima che poi, bisogna restituire, e mai in modo indolore; mentre i libri e l’arte, sotto tutte le sue forme, il sapere in genere è una fonte inesauribile, sempre pronta a dissetarti.

Quale abbaglio! non per il concetto in sé poiché quello è assiomatico, ma per il fatto che nella tua cecità, non collegasti mai la facoltà cognitiva all’età che avanza; non ti sfiorò mai il pensiero che tali facoltà ed età sono inversamente proporzionali.

Ne prendesti coscienza quasi all’improvviso e fu scioccante. Frattanto ti eri accorto (ma ancora non t’importava più di tanto) che il mondo, pian piano, ti girava le spalle. I pedanti non sono benvoluti poiché non saranno mai “di grande compagnia” e, non sempre accettabili, come il simpatico “Riccardo che da solo gioca al biliardo”.

In tal modo arriva il momento in cui i “belli”sono costretti a restituire il prestito. Che cosa possono fare, a questo punto, se non fracassare tutti gli specchi di casa ed isolarsi per nascondere il loro sfacelo? E alle “menti” invece, che cosa resta da fare? Gli artisti in genere (anche quelli sconosciuti) e gli assetati di sapere, dovrebbero bruciare tutti i loro libri, distruggere le loro opere. Vien da chiedersi quanti di loro abbiano tale coraggio. E se anche così fosse la situazione non cambierebbe di un ette. Per nessuna delle due categorie.

E qui, a conclusione, sembra opportuna una frase che tutti, almeno una volta nella vita, abbiamo mormorato con le nostre parole: “Mi dica un po’, pastore, dove sta scritto che la vita debba avere un senso?” – (Eduard von Keyserling, Il castello di Dumala, Milano, Markos y Markos, 2005, pag. 31).