Celeste Chiappani Loda

Lungo il binario - Rubrica culturale

La Figlia del Podestà di Andrea Vitali

Garzanti, 2005

L'autore ci avverte subito che "I personaggi e le situazioni raccontate in questo romanzo sono frutto di fantasia. I luoghi, invece, sono reali." Dobbiamo crederci senz'altro; eppure a me, che ho trattato del mio paese e dei suoi abitanti, sia come studio del dialetto, sia come tradizioni e usanze, trovo che le situazioni in cui veniamo ad imbatterci durante la lettura, potrebbero costituire la logica o la bizzarria proprie del quotidiano che si dipana all'interno di una piccola o media comunità.

Ogni paesello o paesotto ‑ a differenza di una metropoli dove la dimensione umana non può trovare posto in una realtà tanto aberrante ed ineluttabile ‑ ha i suoi personaggi che emergono per qualche loro peculiarità comportamentale, che si dimostrano poco pedissequi. Tutto ciò dà origine ad una forza di coesione, ad un cemento che fa della piccola o media comunità un qualcosa di compatto, un'entità quasi tribale. Detta entità ha un proprio lessico, un sottoinsieme, potremmo dire, del linguaggio che serve per la giornaliera comunicazione interpersonale; lessico che trae le sue origini da una situazione qualsiasi, da un fatto banale, magari remoto, tramandato attraverso le generazioni; non solo ma da tali situazioni, da tali fatti possono nascere anche soprannomi, quasi sempre pregnanti, saporosi, da affibbiare ai loro protagonisti. Tutto ciò rappresenta l'ordito da inserire in una trama precostituita (quella della condizione umana in genere) onde tessere il vissuto collettivo, importante nella sua varietà, il quale però mai sfugge alla forza centripeta del suo nucleo. Sono queste le pagine non scritte della piccola Storia che non verrà riconosciuta dalla grande Storia pur facendone parte, che rappresenterà sempre il collante che tiene unito ogni elemento della parcellizzazione del consorzio umano.

Parliamo ora dello stile del Vitali, che ritengo personale e incisivo, supportato da un uso pulito e proprio della nostra lingua; uno stile caratterizzato da continui e concitati "a capo" dai quali si può evincere lo spessore psicologico dei personaggi. In tal modo il lettore viene preso da un vago senso di attesa.

Altra scelta del Vitali è quella dell'uso frequente di capitoli brevissimi, poche righe (si vedano, ad esempio i numeri 34, 45, 79, 123). Scaltrezza di mezzo per collegarsi con capitoli di più ampio respiro e che aiuta l'autore a portare avanti un impianto complesso e per situazioni e per scansioni temporali.

Se qui abbiamo usato il termine scaltrezza, useremo quello di originalità quando Andrea Vitali fa finire un capitolo con parole che riprenderà uguali (o quasi) per iniziare quello seguente. Capitolo nuovo per fatti nuovi rappresentati da attori diversi che si muovono in scenari diversi. Non si può negare al tutto una certa suggestione (si vedano, ad esempio, le pagine 214-215, 267-268, 294-295, 296-297).

Il filo rosso de La Figlia del Podestà è il senso del comico che scorre come una vena continua, ma nascosta poiché in questo romanzo non mancano le scene sia drammatiche sia molto serie: Gerolamo Vitali, alcoolista si dice oggi, che perde il lavoro; Ofelio Mencioni rimasto incastrato in una situazione insostenibile che lo può portare alla rovina; lo stesso Podestà, tronfio e accecato dall'ambizione, che, nell'ambascia di sentirsi minacciato da uno scandalo, dimentica addirittura "l'impegno assunto con Sua Eccellenza il Prefetto" (pag. 309); il giovane scapato Mazzagrossa, vittima di spietati sicari.

Il tutto nel clima del "ventennio"di cui però si respira solo una sottilissima marginale aria di comicità poiché l'autore sta comodamente affacciato ad una finestra neutrale.

I drammi e le situazioni preoccupanti sono resi in modo che la loro portata resti a livello subliminale del fruitore di quest'opera; essi non lo coinvolgono, non gli creano patemi, scivolando via come le gocce d'acqua dal piumaggio degli anatidi.

Quella del Vitali è una scelta, c'è da credere, in linea con l'architettura del libro, il quale, pur nella sua serietà e puntualità per quanto riguarda le notizie storico-burocratiche, è quella del romanzo leggero, dove l'autore, onnisciente o no, non usa lo scandaglio per un lavoro di fino, sia per sondare stati d'animo, sia per descrivere situazioni o paesaggi.

A proposito di paesaggi si noti che Andrea Vitali, infatti, durante tutto il percorso, non posa mai uno sguardo attento e partecipe sui luoghi dove ambienta il suo lavoro ricchi di chissà quanti momenti suggestivi per farli vivere poi sulla carta, di vita propria, palpitante. I nomi dei luoghi corrispondono alla realtà, come scrive nell'avvertenza riportata al principio di questo scritto. L'Orrido e tutti gli altri: fedeltà mera alla toponomastica locale. Comunque anche questa è una scelta e, come tale, degna di rispetto.

Oggigiorno molti dei pochi appassionati di lettura (crediamo sia lecito pensare che l'invasivo scadente piccolo schermo ne abbia scarnito le file riducendo i pochi a pochissimi) hanno il palato guasto da descrizioni volgari, erotiche e di violenza, il tutto fissato sulla carta per il tramite della parola scritta, che si avvale di un linguaggio scurrile e sciatto. Ne consegue che uno scrittore, per avere la possibilità di essere letto, deve indulgere ad uno, due ‑ peggio ancora ‑ al mazzo completo di questi elementi. Da qui la domandina spontanea: È l'editore di turno che lo esige per problemi di "cassetta"?

Questo preambolo per arrivare al Vitali che, ad un certo punto del suo lavoro, prende a far esprimere quasi tutti i suoi personaggi in modo boccaccesco, a far pronunciare loro volgari modi di dire a doppio senso. Ricollegandoci alla domandina di cui sopra non sapremo mai se anche questa è una scelta dell'autore.

Ed ora affrontiamo i termini in dialetto bellanese che Andrea Vitali sparge qua e là nella sua opera.

Come accennato sopra, compii un approfondito e articolato studio sul dialetto della Bassa bresciana maturando così delle idee sull'uso del vernacolo nella narrativa in lingua.

Diciamo che il Vitali non ha abusato di questo che può essere ritenuto un mezzo per dare la sensazione di entrare nell'animo di una comunità, per rendere (o far credere di esserlo) chi scrive parte attiva e amorosamente inserita in quell'ambito sociale. Modo di proporsi per uno scrittore, di cui pare che di questi tempi non si possa fare a meno. Il nostro autore, come detto, non è caduto in questo abuso, tuttavia trovo scorretto il segno tipografico usato per il termine o l'espressione dialettale. Infatti li troviamo scritti come fosse italiano, senza alcunché che li distingua ‑ ad esempio il carattere corsivo metterebbe in risalto la diversità.

Ogni dialetto ‑ e l'Italia ne è stracolma ‑ possiede la dignità di una lingua vera e propria. Magari i vernacoli possono essere poveri di vocaboli, ma in genere sono ricchi di sapidi idiotismi, di similitudini e di metafore, di proverbi, sempre frutto, questi ultimi, di empirica saggezza. Purtroppo per molti di essi è piuttosto problematico trovare fonemi per creare un alfabeto che ne renda possibile la scrittura. Tantissimi sono profondamente diversi tra di loro; perciò quello di un paese o di una città lombarda eccetera non può essere capito (e apprezzato conseguentemente) non solo dagli abitanti di un paese o di una città del Centro Italia o del Sud, ma nemmeno dagli abitanti di un altro paese o di un'altra città della Lombardia eccetera. E viceversa. Questo ci pare sufficiente per trovare logico e corretto scrivere i romanzi nell'idioma nazionale, a meno di appesantire il tutto con un vocabolario ad hoc.

Abbiamo detto che l'impianto de La Figlia del Podestà è quello del romanzo leggero. Proprio per questo all'autore è consentito di ricorrere a trovate risolutive che sanno di mezzuccio e di servirsi di personaggi che non esita a trasformare in caricature. Vedasi zia Rosina quando abbraccia il ruolo di cospiratrice (pag. 64 e segg.). Infine ecco la lettera esplicativa e rassicurante, indispensabile per chiudere in bellezza. Essa fa trarre un sospiro di sollievo a tutti i personaggi e magari anche a quel lettore che si sia lasciato intrigare. Infatti la bella Dulù, con il fidanzato Mencioni, vivono felicemente a Parigi, e dove se no, data la grande dimestichezza con la lingua francese dell'aspirante attrice? Città in cui inopinatamente hanno fatto fortuna.

Per concludere diciamo che quello di Andrea Vitali è un libro che si può leggere volentieri sotto l'ombrellone.